Una mia carissima amica, che chiamerò Barbara ma non è il suo vero nome, qualche giorno fa mi ha chiesto di accomapagnarla. “Si tratterà di stare lì solo una mezz’ora, non serve a nulla starci di più”. “Ma certo, non preoccuparti, ci stiamo cquanto vuoi” la rassicuro. In cuor mio ero onorata che avesse scelto me, la consideravo una prova di genuina intimità fra amiche ma devo ammettere che ero anche terrorizzata. Quando siamo arrivate davanti al cancello…(continua)
Una mia carissima amica, che chiamerò Barbara ma non è il suo vero nome, qualche giorno fa mi ha chiesto di accomapagnarla. “Si tratterà di stare lì solo una mezz’ora, non serve a nulla starci di più”. “Ma certo, non preoccuparti, ci stiamo cquanto vuoi” la rassicuro. In cuor mio ero onorata che avesse scelto me, la consideravo una prova di genuina intimità fra amiche ma devo ammettere che ero anche terrorizzata.
Quando siamo arrivate davanti al cancello, il mio cuore comincia a battere leggemente più forte. Nell’atrio un ragazzo di circa trent’anni tiene la sigaretta spenta fra le dita, con le spalle curve e lo sguardo agganciato alle nostre figure. Indossa una tuta troppo grande per il suo fisico. Ci fissa mentre aspettiamo l’ascensore. Mi sembra ci metta un’ora ad arrivare, eppure sono solo quattro piani.
“Grazie per essere qui” mi dice Barbara fissando il pavimento. “Ma dai topona, non preoccuparti, non devi ringraziarmi, sono qui e basta, davvero” le dico stringendole la spalla con una mano, per sottolineare la sincerità delle mie parole. Quando l’ascensore arriva e si aprono le porte, esce una donna anziana, ha una gonna blu e una maglia bianca, ci chiede se abbiamo visto le chiavi del suo armadietto. Barbara schizza nella cabina, io esito un secondo perché sto per rispondere alla signora ma Barbara mi incalza un po’ brusca: “Dai, sali”.
Comincio a sentire lo stomaco che si stringe. D’altra parte è questo che ci aspettava. Lo sapevo e ho deciso di affrontarlo perché non volevo lasciare Barbara da sola. Voi avete qualche fobia particolare? Qualcosa che vi mette profondamente a disagio? Io sì, ed è la malattia mentale. Io mi blocco davanti a una persona con problemi mentali. Ho il terrore di interagire, vado in tilt, ho paura di lei. Non so perché. E dato che ci troviamo in un ospedale psichiatrico, sento la mia ansia che mi riempie lo stomaco e poi la gola, come se fossi un bicchiere di cristallo che sta per essere riempito fino all’orlo. Guardo Barbara, sembra tranquilla.
Arrivate al piano, l’ascensore si apre su un pianerottolo, limitato da tre porte. Andiamo verso quella di sinistra. Barbara suona il campanello, dopo pochi secondi sentiamo lo scatto e appena entriamo c’è un’infermiera sorridente ad accoglierci. “Ah buongiorno signora, come sta?” dice rivolgendosi alla mia amica poi mi guarda e mi fa un cenno con la testa per salutarmi. Seguo Barbara e l’infermiera, mi tremano un po’ le gambe. Non c’è puzza di ospedale, l’ambiente è luminoso.
Sbircio le camere, alcune sono vuote, altre hanno qualcuno sdraiato a letto. Tutte le porte hanno appiccicato un foglio con il nome dei pazienti scritti a mano, con pastelli colorati. Mi sembra un tocco gentile per ribadire che lì dentro c’è una persona prima di tutto, non un oggetto guasto. Ecco, ci siamo. La mia amica saluta la mamma, che non la riconosce. La abbraccia ma la donna continua a chiederle “Chi sei? Fammi vedere un documento!”. Il viso della mia amica è teso, il suo corpo rigido, gli occhi sono due rubinetti di malinconia.
Sto in disparte in un angolo, poi a un certo punto esco dalla stanza per lasciarle sole. Faccio due passi e ritrovo la signora di prima: mi chiede ancora se ho visto le chiavi del suo armadietto. Le dico che no, no le ho viste. Accorre subito un’inferiera, si scusa con me, no c’è problema dico io, e la dirotta da un’altra parte. Altri due passi e mi trovo in una specie di salottino. Un uomo è seduto al tavolo con le braccia piegate in modo che servano da cuscino per la testa. Mi ricorda quando all’asilo ci costringevano ad assumere la stessa posizione per fare il “pisolino” pomeridiano. Vorrei scappare alla velocità della luce. Una signora è seduta in poltrona e guarda fuori dalla finestra, immobile. Il cervello di queste persone ha smesso di funzionare come dovrebbe. Qualcosa è successo alle loro connessioni elettriche, la zuppa di neurotrasmettitori si è raffreddata troppo presto e nonostante la “materia”, la mera meccanicità del problema, siamo lontanissimi dallla riparazione. Mi chiedo dove sia finita l’anima di queste persone. E dov’è la mia, adesso.
Sento che il mio respiro si fa più faticoso. A un certo punto sento Barbara che mi chiama. La visita è finita. Facciamo il percorso inverso e usciamo. La mia amica è molto provata, mi ringrazia ancora per non averla lasciata sola e dice che fra qualche giorno starà meglio.
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