Quando sono arrivata davanti a quel portone, sapevo già cosa avrei visto e sentito. Il mio corpo era all’apparenza quello di sempre, ma io sentivo che il suo peso era cambiato. Era come avessi del marmo sul cuore: un enorme cubo di marmo bianco, con le venature grigio chiaro. Ho esitato davanti al citofono. Un attimo di attesa, sono entrata…(continua)
Quando sono arrivata davanti a quel portone, sapevo già cosa avrei visto e sentito. Il mio corpo era all’apparenza quello di sempre, ma io sentivo che il suo peso era cambiato. Era come avessi del marmo sul cuore: un enorme cubo di marmo bianco, con le venature grigio chiaro. Ho esitato davanti al citofono. Un attimo di attesa, sono entrata. Il silenzio appoggiato su ogni angolo dei corridoi, come quelle lenzuola che si intravedevano, che coprivano tutto fino ai capelli. Mi viene incontro la figlia più grande.
Ha lo sguardo spaventato di chi non capisce cosa stia accadendo. Penso che abbia ragione. Non abbiamo ancora capito che senso abbia la vita, figuriamoci la morte. Il sole che entra dai vetri è un’esca per guardare fuori, per attraversare con lo sguardo quelle finestre che sembrano uno spot invadente: sì, là fuori c’è il mondo che va avanti, con i suoi colori e i suoi rumori e tanti inutili parole. Conosco questo posto, anche se è un posto diverso. È il luogo delle domande senza risposte. Delle frasi finalmente senza pudore, degli sguardi semplici che continuamente chiedono “Perché?”.
Accompagnata dalla figlia, entro nello stanza. Del suo sorriso non rimane più nulla. I suoi occhi vivaci, la sua parlantina… non è rimasto nulla. Il suo viso è quello di mille altri visi pronti per spegnersi. Immagino che la morte sia già qui, seduta da qualche parte, che aspetta. Non la immagino cattiva, assetata, spietata. La immagino annoiata, lenta, distratta. Lo guardo e vorrei farmi il segno della croce. Ma esito e continuo a fissarlo. Il suo non è più un respiro ma un rantolo. Sento le mie lacrime che vogliono uscire ma qualcosa le blocca.
Non ci sono parole, solo pensieri ingarbugliati, troppo pesanti per galleggiare sulla mia anima e allora affondano nel mio stomaco, dove non verranno digeriti ma rimarranno lì, a provocarmi dolore fisico. Sto guardando un uomo non-vivo e non-morto. E’ tutto quello che possono fare gli infermieri: un cocktail così potente per assopire ma non abbastanza sincero per spegnere questa non-vita. Perché qui in Italia la parola eutanasia è una parola sporca, troppo sporca di ipocrisia.
Provo rabbia. Rabbia per tutte le volte che i miei educatori, religiosi e non, hanno mancato nel farmi capire fin da bambina che non può esserci vita senza la morte. Provo rabbia per una religione che tratta la morte come una cosa orribile, che riempie i luoghi di culto con i teschi, che ha fatto della sofferenza una ragione di vita. Una religione che non offre speranza, ma solo frasi confuse, come un qualunque imbonitore di piazza, con la pozione magica che ti risolve i problemi senza pensare. Provo rabbia per questa società sterilizzata dalla morte: dobbiamo essere giovani e belli per sempre, la morte non esiste. Non bisogna parlarne, non bisogna rovinarsi la giornata parlando di queste cose. Anzi, non c’è per caso una app per cancellare la morte dal nostro menù? Continuo ad osservarlo: ha lo stesso, identico viso di mia nonna quel giorno. Il dolore che provo per lui mi strattona per andare a sentire, ancora una volta, il dolore che provai per mia nonna.
Esco dalla stanza, abbraccio la figlia. Lascio quel luogo dove l’attesa è soffice e gelida come la neve. Il silenzio urla il dolore dei vivi così forte. Esco senza risposte. Questa mattina il mio amico ha smesso di soffrire. Chi lo ha amato, come la sua bella famiglia, continuerà a vivere con il buio nel cuore e senza risposte.
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